La Novecolli di Grimpeur

Vi ho già raccontato la mia prima partecipazione alla Novecolli, oggi tocca a Grimpeur. Il nickname è ironico, vista la stazza, ma l’uomo è vero, credetemi. Leader carismatico e deus ex machina dei Lenti e Contenti, ha partecipato alla Novecolli per la prima volta nel 2011 con – sono parole sue – “un super allenamento alle spalle fatto di ben 1 uscita a settimana per due mesi!”. Quello che segue è il suo resoconto, scritto un mese dopo quella esperienza, quindi ancora “a caldo”, con tanta (auto)ironia e altrettanta emozione. E ora torniamo indietro nel tempo e parola a Grimpeur.
Sabato, giorno di vigilia
Giornata di riposo assoluto (e vorrei ben vedere, visto che il giorno successivo la sveglia è fissata alle 4,00); uno spettacolo unico con un’intera cittadina letteralmente assalita da ciclisti. Una vera goduria per gli occhi di un appassionato: ovunque ci si giri solo fiammanti specialissime, intere squadre a passeggio e discorsi che inevitabilmente vanno a finire sempre li: il Barbotto e le sue pendenze, come affrontarlo e/o come sopravvivere. Inutile precisare che la mia attenzione è rivolta ai racconti di chi spiega come sopravvivere. Nel girovagare scopro che è organizzata anche la fiera del ciclismo con un’infinità di stand dei principali produttori del settore, e così iniziano le prime sofferenze (finanziarie). Dopo 4 ore sotto il solleone e circa 12 km fatti a piedi, me ne torno in albergo cotto e pieno di borse con cappellini, magliette, bandane, guanti: un guardaroba da fare invidia a un professionista. Non faccio in tempo a godere degli acquisti fatti che la moglie (avete mai notato come le consorti sono sempre pronte a sostenerci moralmente!) con un rapido calcolo mi fa subito presente che, sulla base della mia media settimanale di allenamenti, ci vorranno circa 2 anni per provare tutto quanto comprato. La sera si va a fare un piccolo giro per smaltire la cena: incredibile sono le 22 e in giro non c’è più nessuno, sembra che ci sia il coprifuoco. Torniamo in albergo e l’albergatore mi dice che sono già tutti a dormire da almeno 1 ora: domani c’è la gara! Sono le 23.30 e non riesco ancora a dormire: sarà la tensione per la gara, in fin dei conti mi dico che sono 25 anni che non faccio una gara – anzi in bici è la prima assoluta.
Domenica giorno di gara:
Ore 4.00: suona la sveglia e il primo pensiero è: ‘azz, mi ero appena addormentato. Mi fiondo giù dal letto e vado a fare colazione in pigiama. Con mia grande sorpresa trovo tutti (ma proprio tutti) già vestiti da gara che fanno colazione: sono già ultimo! L’albergatore, con orgoglio, mi mette subito sotto il naso un bel piatto fumante di pasta in bianco; avete mai provato a mangiare la pasta a colazione alle 4 del mattino? A me si chiude lo stomaco solo alla vista e mestamente chiedo, tra lo stupore di tutti i compagni d’avventura e della sala, albergatore compreso, se posso avere una semplice tazza di te con biscotti.
Ore 4.45 il mio socio di pedalate bussa tutto affannato e mi dice: «sbrigati che è tardi, sono già partiti tutti per andare in griglia». «A far che?» rispondo io, visto che la partenza è per le 6.00. In risposta mi arriva un disarmante: «si vede proprio che sei alla prima Nove Colli».
Ore 5.15 sono in griglia, è buio, fa freddo e c’è un forte odore di unguenti scaldamuscoli che mi da nausea. Poco male, per tirarmi su penso che almeno serve per svegliarmi. La mia griglia è l’ultima a partire siamo in 2.000 (su 12.800) e teoricamente dovremmo essere i più tranquilli. Mi guardo intorno e mi deprimo: le specialissime degli altri sono talmente specialissime da far impallidire la mia (che tanto male poi non è); hanno tutti la gamba depilata e oliata a puntino. Mentre penso “ma che ci sto a fare io qui in mezzo a tutti questi professionisti?”, mi accorgo che mi stanno guardando, stupiti di vedere in griglia gambe pelose.
Ore 6.00 i primi partono e lo speaker incalza con fare terroristico: «Rampe micidiali, rettilinei senza respiro con vento contrario, sarà dura quest’anno, moolllto dura» ‘Azz, – penso – voglio la mamma. Fatemi tornare a casa. Impossibile, ma soprattutto poco onorevole uscire dalla griglia.
E ora… la gara!
Ore 7.00 finalmente si parte. Ma ‘sto speaker come cavolo fa ad avere ancora tutta sta voce? Ormai le sue iatture non mi toccano, scivolano via perché tanto la decisione è presa: vado della mia andatura, tranquillo, perché mica voglio lasciare orfani 3 figlioli. Sono passati 5 minuti e subito ai garretti depilati e ben oliati di prima parte l’embolo: si viaggia ai 40 orari con vento contrario. Penso, e mi raccomando, “bello coperto e succhia la ruota giusta, poi se esagerano lasciali andare che oggi è lunga”. Al 10° km un’occhiata veloce al cardio mi dice che sto andando alla grande, 148 battiti a 40 orari: “cavolo sono veramente forte oggi!” Mi sento rinfrancato e comincio a pedalare di buona lena, gustandomi lo spettacolo della fiumana di gente che è intorno a me e delle persone che a quell’ora del mattino sono già in strada a vedere passare la carovana colorata. Mi desto dal torpore quando in lontananza, tra la foschia, si intravedono finalmente i colli romagnoli. Siamo al km 25 e la media è di 34 orari.
Le prime salite
Km 30 prima salita: butto giù la catena sulla corona del 34, metto il 23 dietro e salgo regolare controllando i battiti: “non posso andare fuori giri già sulla prima salita o sono fregato”. Niente di che, poco più che un aperitivo (si fa per dire, con pendenze all’11%). A un tratto stop repentino, tutti fermi in salita e piede a terra (onta massima per un ciclista): la strada si stringe di colpo, da due carreggiate si volta su una stradina molto stretta dove passa a malapena una macchina; si crea un ingorgo tipo autostrada A1 il giorno di ferragosto. Si sale a piedi per 200 metri sullo strappo più duro di tutta la prima salita: “poco male – penso – risparmio energie e ho la coscienza salva, perché il piede a terra non è stato volontario ma comune a tutti”. Ma che fatica camminare con ‘ste scarpette in salita, si slitta come sul ghiaccio.
In cima sembrano tutti impazziti come punti da uno sciame di api e saltano in bici con una frenesia al limite dell’assurdo: ma come, 10 minuti per fare 200 metri a piedi e adesso si incazzano perché qualcuno (non io) ci mette 2 secondi di troppo a inforcare il pedale!
Discesa a rotta di collo: vado giù a 65 km orari e mi accorgo che sono teso come una corda di violino: è praticamente uno slalom tra quelli che vanno più piano di me e quelli (pazzi) che arrivano da dietro e mi sfrecciano via passandomi a fil di gomito per sfruttare sino all’ultimo la scia.
Km 45 seconda salita: non mi ero mai accorto di quanto possa essere breve un tratto in pianura tra due salite. Inizia qui una lenta trasformazione destinata ad accentuarsi nel tempo: la “ruota giusta” non è poi mica tanto più giusta e se ne va. Rimango solo per qualche istante poi passano diverse ruote ma vedendo i garretti (e l’olio) decido che non sono quelle giuste – non serve neanche guardare la velocità. Certo, potrei rallentare e salire con qualcuno di quelli che sorpasso, ma che diamine siamo in gara e non posso certo mettermi con delle lumache!! Finalmente quando ormai sono rassegnato a salire da solo mi affianca un ciclista di Misinto – tal Giuliano – che mi dice «sono 10 km che ti sto in scia, dai che ora andiamo insieme». Cavolo 10 km che tiro qualcuno e neanche me ne sono accorto, questo fatto mi dovrebbe far riflettere. Si va su in coppia ed è piacevole: Giuliano è alla quinta Novecolli, ne conosce tutti i segreti e mi fa da cicerone – per quanto permetta la salita.
Terza salita: il Ciola
Km 65 terza salita il Ciola (già il nome sembra un’imprecazione in Romagnolo), commento del Giuliano: «mo’ iniziano i ‘azz!»: Passiamo davanti al rifornimento ma ho ancora più di metà borraccia: si va, non abbiamo mica tempo da perdere, qui si gareggia. Scopro strada facendo che il Ciola è tutto al sole e non ti da un attimo di respiro; con 32 gradi e senza ombra la metà borraccia evapora rapidamente. Fa niente, siamo in cima e abbiamo recuperato parecchia gente che annaspava per strada. Finalmente discesa, penso “ora si recupera un po’”: dopo però che a un tornante ho visto un ciclista fermo acciaccato e “spelacchiato”, decido di dar fondo alle pastiglie dei freni e inizio a scendere come la “sciura Maria” con la cesta del pane sul manubrio.
E finalmente il Barbotto
Km 85 quarta salita: Il Barbotto. Finalmente è arrivato, sono proprio ansioso di affrontarlo; è da dicembre, quando mi sono iscritto, che tutti me ne parlano con un rapporto di odio/amore. La curiosità è alle stelle e il gusto della sfida prende il sopravvento: sto talmente bene che al rifornimento idrico alla base della salita non mi fermo perché ho la gamba che gira alla grande e non voglio spezzare il ritmo. La salita si divide in due tronconi: i primi 3,5 km vanno su a gradoni: strappi all’11-12% si alternano a brevi tratti al 6-7%, dove qualcuno riesce anche a recuperare.
Il secondo troncone di 1 km non lo devi cercare; è lui che ti viene a prendere col suo 18% di pendenza. Non hai neanche bisogno di vederlo perché tanto lo “senti” da subito con tutti i tuoi sensi, nelle gambe, nelle braccia, nelle mascelle, e non solo, perché dal fondo degli ultimi 3 tornanti si sente lo speaker e l’incitamento della gente che tenta letteralmente di spingere i ciclisti sulla cima. La trasformazione iniziata sulla seconda salita giunge al suo apice e di colpo non mi sento più Contador, ma un tricheco che annaspa. Tre tornanti tre: “Paolo prendili larghi se no ti pianti”, passo via un gruppo di tifosi che mi incitano e mi dicono “Sali del tuo passo”. “Ma qual è il passo di un tricheco ansimante?” mi chiedo.
Ho nel sacco i tre tornanti tre e ora alzo lo sguardo sul calvario finale (proprio così lo chiamano): rettilineo finale di 600 metri al 18% costante. La strada si fa largo tra due ali di folla che ti incitano a non mollare e lo speaker che da la benedizione a tutti quelli che scollinano. Giusto il tempo di pensare che ce la posso fare e … succede. Si spegne la luce. E non solo, se ne vanno anche gli elettricisti, il service si porta via l’impianto e le casse, e gli inservienti sbaraccano sedie e tavoli. Inizia davvero il calvario, ho ricordi vaghi di quei benedetti/maledetti 600 metri finali. Ricordo bene solo due cose: le stilettate sui quadricipiti femorali a ogni pedalata e il mio computerino che bippa ormai all’impazzata (la soglia a 176 bpm l’ho lasciata al 3° tornante). Del resto non ho ricordi. Questi riprendono solo quando ho “sentito” la strada che spianava (scende al 6%) e alzando lo sguardo ho visto due postazioni mobili di Pronto Soccorso.
Ho domato il Barbotto. Appena ho ripreso un minimo di lucidità mi sono però reso conto che il Barbotto aveva presentato inesorabilmente il conto e che era molto, ma molto salato: crampi a go go, disidratato e con crisi di fame. A fatica, molta fatica, lottando contro i crampi che ormai erano diventati il mio nemico numero uno, sono riuscito a fare il chilometro che mi separava dal ristoro.
Come ho già detto il piede a terra è la peggior onta per un ciclista, ma ormai del ciclista non ho più granché (e poi, diciamocelo, i trichechi lessati non hanno mica i piedi) e così tronfio di orgoglio come Ivan Basso dopo la vittoria allo Zoncolan, o più mestamente come Fantozzi che si vanta con la Pina, mi sono fermato al ristoro.
E qui è venuto fuori il professionista latente in me attento anche ai più piccoli particolari: crisi di fame? No problem: 2 banane e 4 pezzi di torta. Disidratato: no problem: 3 bicchieri di sana Coca Cola, 2 borracce di acqua frizzante fresca e una doccia in testa che ho fatto la fila dietro. Sali minerali? Neanche a parlarne: dopo tutta ‘sta fatica vorrai mica ingurgitare quelle schifezze rossastre. Almeno il palato facciamolo godere un poco. Tempo per smaltire l’abbuffata: 40 minuti! Poco male, è stato giusto il tempo per permettere al veloce spuntino di entrare in circolo e aiutarmi a respingere oltre la trincea il nemico (maledetti crampi).
Il finale
Galvanizzato dalla sosta rigenerante sono ripartito per divorarmi gli ultimi 40 km: con un bolo sullo stomaco per il cibo e tutto il gas delle bollicine che girava in pancia, i primi chilometri sono stati leggermente faticosi (eufemismo). Sopravvissuto ai mangia e bevi (non è quanto da me ingurgitato al ristoro; così vengono definiti i brevi strappi con continua alternanza di discesa e salita) che vanno dal chilometro 93 al 105, mi sono finalmente buttato nella discesa finale che porta agli ultimi 20 km di pianura. Il ciclismo ha ancora molti segreti per me ma su una cosa sono sicuro: il vento è sempre incazzato con i ciclisti (mi piacerebbe proprio sapere cosa gli hanno fatto) e ora tira nel verso opposto rispetto al mattino. Rientro a Cesenatico con forte vento in faccia; riesco a prendere la ruota di un treno che viaggia a velocità per me impensabili in solitaria. Siamo però in pochi (6) e così ogni 5 minuti tocca a me tirare: non ho il coraggio di ammettere che sono al lumicino però al terzo cambio quando passo in testa a tirare e la velocità scende drasticamente di un 20% se ne accorgono tutti. E li hanno pietà di me e Giuliano (sempre lui – che si è fermato al ristoro con me e ha fatto anche peggio in quanto ad abbuffata) mi dice: “mettiti al gancio”. Non mi ero mai reso conto di quanta soddisfazione ti possa dare il superare altri gruppetti di ciclisti che non riescono a prendere la tua ruota.
Cartello dei meno 2 km a Cesenatico: mi convinco che ormai è fatta e raschiando il fondo del barile, anche per sdebitarmi un po’ con chi mi ha letteralmente tirato per 18 km, sfrutto un pezzo di strada in cui il vento è laterale e passo in testa a tirare aumentando la velocità. Con la mia dote di passista (dote naturale data dalla stazza) mi sento ormai come un novello Cancellara: 40 km orari e già mi prefiguro l’arrivo sotto lo striscione del traguardo alla testa del gruppetto; queste sì che sono soddisfazioni.
Porca miseria, che cavolo è venuto in mente agli organizzatori di farci fare due cavalcavia di seguito a un chilometro dal traguardo? Non lo sanno che questi sono scherzi molto brutti? E poi all’andata mica li abbiamo fatti. Dopo 133 km e 2.000 metri di dislivello è come sparare sulla Croce Rossa. Mi pianto, arrivo in cima al primo cavalcavia ai 23 orari e mi viene da piangere all’idea di dover fare il secondo: i crampi, che se ne erano stati buoni per tutta la pianura, si prendono la loro rivincita su tutta la linea. Decido di non dargliela vinta, così butto giù la catena sul 34 davanti e metto il 25 dietro (giusto per andare su “duro” – il Barbotto l’ho fatto col 34×27) e arrivo alla sommità dell’imprevista Cima Coppi a un’andatura che sfida le leggi di gravità. Discesa e meno 500 all’arrivo, scopro con immenso piacere che Giuliano ha rallentato per aspettarmi, quando arrivo mi dice «abbiamo sofferto insieme e insieme si arriva al traguardo». Con la forza di volontà vado avanti fregandomene dei crampi, ultima svolta e siamo sul lungomare a 300 metri dall’arrivo, si vede lo striscione e tutta la gente, tanta, ai lati, che applaude. “Cari crampi questa volta vinco io”: mi alzo sui pedali, rilancio l’andatura e tiro la volata sino ai 50 metri dal traguardo, poi mi rialzo, aspetto Giuliano e tagliamo insieme il traguardo.
6h 50’ dice il cronometro ufficiale. E chi se ne frega penso io. Secondo pensiero: l’anno prossimo torno e ti sistemo io.

2 commenti
Grimpeur
Quanti ricordi e che emozioni.
Grazie Alessandro 😃
Alessandro
Grazie a te, Grimpeur, gran bel racconto il tuo. Francamente spero di rivivere una Novecolli con te, anche se capisco perfettamente le tue perplessità: le Granfondo adesso sono molto più “agonistiche” di qualche anno fa, e tu lo sei meno, nel 2011 racconti di una grinta che non ti conoscevo e che adesso hai un po’ perso, diventando più Lento e contento!